Il giorno della memoria nel 2021
Con il 27 gennaio torniamo ad occuparci della tragedia della Shoah come momento straordinario, fuori dall’ordinario appunto, oltre la comprensione dell’umano, un impensato che travalica la possibilità stessa della definizione. Ed è un modo rituale di segnare nel tempo e nella Storia un evento assoluto per non lasciare sepolto alcunché di quell'orrore, anche laddove gli accadimenti o le storie possano inscriversi in azioni apparentemente “periferiche” di antisemitismo. Il continuo ritorno a quelle narrazioni, in soggettiva dei testimoni o con lo sguardo “dilatato”, ovvero allargato sulle conseguenze che la Shoah ha generato nelle persone, di come ha segnato in modo indelebile la vita di tantissimi oltre il lutto, oltre la polverizzazione sistematica e chirurgica di un popolo, non è soltanto il ritorno al respiro attraverso la memoria ma, ancora di più, la rivendicazione di un diritto, il diritto di esistere, con la propria specificità e differenza. La deportazione e lo sterminio di milioni di ebrei, bambini, uomini e donne, giovani e anziani (senza dimenticare il destino ch’è toccato agli omosessuali, ai rom e ai sinti, agli oppositori) mostrano un paradigma nel quale la sofferenza si configura come un atto irredimibile, come scrive Massimo Giuliani. «Una delle forze che ha costretto gli ebrei contemporanei a rientrare nel gioco rischioso della storia è stato il male che essi hanno sofferto per mano di uomini ideologizzati e di registi apertamente antisemiti, capofila dei quali sono stati il nazismo e il fascismo. Anche i filosofi - Theodor Adorno e Max Horkheimer, per fare solo due nomi - hanno partecipato alla ricerca delle radici del male storico che ha generato la più grande tragedia moderna vissuta dagli ebrei, la Shoah, come tentativo di genocidio del popolo di Israele tra le pieghe della seconda guerra mondiale. E solo la comprensione di quel male - la sua violenza, la sua magnitudine, la sua metodicità e il livello tecnologico della sua pianificazione e attuazione - dà senso pieno all’uso che i pensatori ebrei fanno oggi del concetto di tiqqun, ‘olam. Non v’è tiqqun oggi che di quella rottura profonda; non v’è reinterpretazione oggi del mito della “rottura dei vasi” che di quel trauma; non v’è redenzione ebraica che in luce di quella sofferenza, la quale, in se stessa, resta un irredimibile»[1]. Per questo, e non solo per questo, riprendere le fila di un discorso interrotto con le “Leggi razziali” e la sua rovinosa conseguenza per gli ebrei italiani diventa difficile, non c’è possibilità di spazio di dialogo tra Emanuele Filiberto, discendente che porta con sé quell’eredità sempre troppo spesso enunciata con orgoglio, e tutto l’ebraismo italiano. L’ebreo lavora quotidianamente in quell’esercizio etico e improbo di “riparare il mondo”, è un gesto sacro finanche religioso, cosciente dell’enormità del compito che si è dato, gesto individuale e collettivo a partire dalla propria soggettività e dalla memoria che lo comprende. Quello di Emanuele Filiberto, invece, non appare un’azione riparatrice, perché di quella frattura rimangono ancora tracce.
FIEP
[1] Massimo Giuliani, La giustizia seguirai. Etica e halaklha nel pensiero ebraico, Giuntina, Firenze 2016, pp. 246-247.